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Pompeo Sacchet, il sedicenne espatriato clandestino

Pompeo Sacchet

Era nato ad Argenta (Ferrara) nel 1891. Il padre, maresciallo dei carabinieri, comandante la stazione della succitata cittadina, giunto al 30° anno di servizio, decise di ritornare al paesello natio e cercare una nuova attività.

Così Pompeo Sacchet, a nove anni, giunse a Cesiomaggiore, paese che non aveva mai visto e dove rimase orfano della madre. Fu inviato a Feltre presso il patronato diocesano, dove terminò le scuole elementari. Dopo di che frequentò i tre anni delle “complementari” a Belluno.

Ritornato a Cesiomaggiore, si trovò a che fare con la matrigna (il padre si era risposato): furono i due anni più tristi della sua vita. Fuggì da casa e con l’aiuto di un carrettiere che lo aveva nascosto nel sacco del foraggio appeso sotto il carro, passò il confine svizzero.

Probabilmente era a conoscenza che parecchi Cesiolini alloggiavano ad Altdorf e lavoravano a Kuber, nei dintorni, in una cava di porfido che trasformavano in cubetti adibiti a vari usi. Fu lì che mio padre, all’età di sedici anni, conobbe i sacrifici dei lavoratori espatriati; ma per fortuna conobbe anche i suoi paesani che lo accolsero come un figlio.

Ed è lì che venne ritratto, con la mazza in mano, in questa spettacolare foto.

Giovanni Sacchet

Cesare Lamastra

Cesare Lamastra

La mia vita di emigrante pare tratta da un romanzo di Salgari, ma sulle navi che solcavano gli oceani non c’erano i pirati bensì marinai che con fatica e sudore si guadagnavano ogni giorno il sudato pane. Io ero uno di quelli. La storia della mia famiglia è semplice.

Mia madre di Villa di Zoldo aveva trovato impiego a Trieste in una gelateria dove incontrò mio padre che faceva il marinaio. Lui era proveniente dal Sud. Il loro fu un amore a prima vista ed il giorno di San Valentino del 1936 venni alla luce portando un raggio di sole nell’unione dei due sposi.

Giunto all’età scolare frequentai la prima classe elementare a Fiume (oggi Rieka, ma in seguito mia madre decise di portarmi dai nonni a Zoldo per farmi crescere in un ambiente più tranquillo. Finita la quinta elementare praticai una scuola dove insegnavano il mestiere di carpentiere e di muratore e a quindici anni ero in Val Grisende sulla Dora Baltea, dove costruivano una diga; venni poi trasferito a Zoldo in occasione dell’apertura di un cantiere a Pontesei dove avrebbero innalzato una diga. Ai nostri giorni sarebbe inconcepibile per i giovani di quindici anni praticare un lavoro massacrante sotto pioggia e gelo ad ogni stagione, arrampicati ad altezze spaventose con sistemi di sicurezza precari. A quel tempo eravamo in tanti in quella condizione: non abbiamo avuto una vita facile.

Quando si è nati in un luogo dove la natura ogni giorno propone processi nuovi e fantasmagorici spettacoli proposti dal sole, le montagne sembrano precludere lo sguardo per trattenere i propri figli come fa una madre. Ma la valigia diventa imposizione, l’emigrazione croce e delizia dell’uomo. Mio padre, notando la durezza del mio lavoro, un giorno mi portò a Venezia e siccome veniva dalla navigazione gli fu facile farmi avere il libretto di navigazione e così incominciava per me una nuova vita, una vita continua di emigrazione. Incominciai la mia vita di marinaio su una petroliera che trasportava petrolio greggio dall’Arabia Saudita al Nord Europa per poi passare ad altre navi molte delle quali portavano la bandiera del Panama che stava a significare la mancanza di assicurazione. Volevo un lavoro sicuro e finalmente trovai nella “Società di navigazione Italia” ciò che cercavo. Ho lavorato per anni su tante navi. Ricordo con uno stato d’animo particolare la nave “Hermosa”. Ero a Bahia Blanca in Argentina e si doveva caricare del grano. La partenza della nave era prevista per le 9 del giorno dopo e, passata la notte con una bella ragazza, alle 7 mi recai al porto per apprendere che la nave era partita da cinque minuti. Dovetti rimanere a Buenos Aires in attesa di ordini per rimpatriare, ma il ritorno avvenne dopo oltre un anno. Nel frattempo mi ero sposato con una ragazza argentina che mi regalò due splendide bambine per poi volatilizzarsi. Solo, a suon di sacrifici, allevai onestamente le mie figlie.

Avrei tanto da raccontare della mia vita, fatta di luci ed ombre, ma lo spazio è tiranno e devo fermarmi all’essenziale. Michelangelo, Raffaello, Cristoforo Colombo, altri nomi altisonanti mi tornano alla memoria. Ancora mi pare di risentire il fischio che annunciava la partenza. Guardavo l’Italia che si allontanava con un senso di malinconia, ma questa era quasi dolce, perché col pensiero pregustavo, a mesi, la gioia del ritorno. Non ci si abitua mai a partire, le notti dell’emigrante sono trapunte di sogni che brillano come stelle del firmamento, i canti nostalgici, le città visitate in ogni parte del mondo che hanno visto la partecipazione degli emigranti italiani, altri particolari mi facevano sentire orgoglioso di essere italiano.

Una volta smesso il servizio sulle navi, prima di andare in pensione, ho lavorato per dieci anni ad Avellino per rimanere fino al 1994 per poi tornare definitivamente a Zoldo. Nei miei viaggi ho toccato ben 20 nazioni: dalla Svezia all’Africa, dal Nord America al Giappone. Ho toccato – fermandomi più o meno a lungo – oltre cento porti. Non li elenco, ma i loro nomi sono tutti impressi nella mia memoria. Questa la mia vita di emigrante. Nostalgia e fatica, disagi e qualche appagamento, la partenza, il rientro. Luci ed ombre dicevo sopra. Le ombre nel passare momenti bui, dolorosi anche, ma talvolta i sogni si avverano, il destino pare possedere una bacchetta magica. Una sera durante una festa paesana ballavamo all’aperto. Il cielo era trapunto di stelle come quando navigavo al mare. Eros scoccò la sua freccia e credere che i sogni si avverino e che il destino prima o poi ti da ciò che ti ha rubato fu tutt’uno. Annetta era di fronte a me; ora sono dieci anni che mi sta ancora di fronte in ogni momento donandomi amore vero come io lo dono a lei. Abitiamo a Mas di Sedico e talvolta a Zoldo. Nei momenti liberi costruisco navi in scala che mi ricordano la mia gioventù, il mio lungo viaggiare per le vie del mondo.

Mentre scrivo questi miei ricordi di emigrante, Annetta mi è accanto e sento la serenità che mi culla come l’onda del mare. Lei mi è vicina e mi fa capire in ogni momento che sono arrivato in un porto nel quale fermarmi per sempre per assaporare fino all’ultimo giorno della vita la felicità.

Cesare Lamastra

Marino Scopel. I miei vent’anni di emigrazione in Svizzera

Compagni di lavoro nel 1966. Marino è il primo in ginocchio da destra
Compagni di lavoro nel 1966. Marino è il primo in ginocchio da destra

Sono partito emigrante da Seren del Grappa all’età di 20 anni, diretto al Cantone di Zurigo e precisamente a Wadenswil, una bella cittadina, dove sono stato occupato in una grande impresa edilizia i cui titolari erano di origine italiana, di Como. Ero partito da Feltre salendo per la prima volta su un treno che allora era ancora condotto da locomotiva a carbone. A Milano mi attendeva uno zio che già da anni lavorava in Svizzera e che mi accompagnò.

Alla frontiera di Chiasso sono sceso, con una moltitudine di altri emigranti come me, per la visita sanitaria e le pratiche doganali. Cosa indispensabile alla frontiera era il permesso di soggiorno ed il contratto di lavoro che io avevo ottenuto tramite lo zio, che tuttora si trova, pensionato, in Svizzera. Fatta la visita medica abbiamo preso un altro treno che ci portò a Zurigo e quindi un altro che mi condusse a Wadenswil dove arrivai alle nove di sera, sempre accompagnato dal caro zio, presso la sede della ditta, una grande baracca di legno.

Io, giovane di Seren che fino ad allora avevo visto solo i prati ed i boschi della mia valle, ero molto timido e preoccupato. Lo zio mi presentò alle persone che erano in baracca che per fortuna erano tutti italiani. Tutti mi rassicuravano: “Vedrai che con noi ti troverai bene”. E così è stato.

L’indomani, puntuale, fui nel posto stabilito; arrivò il baufir, cioè il responsabile dei cantieri della ditta; anch’ egli italiano. Mi presentai a lui e mi chiese se ero muratore o solo manovale; risposi che ero muratore, anche se a mala pena mi arrangiavo avendo frequentato la scuola professionale di Fonzaso. Il baufir ordinò di condurmi ad un cantiere che distava da lì 1,5 Km. Mi portai dietro una piccola valigia di cartone che conteneva pochi attrezzi da muratore che mi ero portato da Seren del Grappa, acquistati con pochi risparmi alla cooperativa del paese. Giunti al cantiere, il magazziniere mi indicò al capo degli operai; preoccupato, perché non conoscevo il tedesco, fui invece sollevato quando vidi che era un italiano anche lui. Alla stessa domanda: ‘muratore o manovale?’ “Muratore”, risposi e mi disse di andare negli scantinati del fabbricato in costruzione a dare l’intonaco alle pareti. Pensai subito che ero fortunato perché fare intonaci era un lavoro che sapevo fare abbastanza bene. Il primo giorno di lavoro è stato abbastanza duro; alla sera non ricordavo nemmeno la strada per ritornare a casa.

La nostra casa era la ‘baracca’, che non era altro che il magazzino della ditta provvista di un certo numero di camerate, una grande cucina ed un salone per mangiare insieme, oltre a delle latrine con doccia. Eravamo circa trenta, disposti in due o tre per camera. Alla sera due di noi cucinavano per tutti secondo turni settimanali con una cucina a legna. Al mattino i più anziani davano la sveglia, una persona faceva bollire una pentola d’acqua, così ognuno di noi poteva farsi il caffé solubile. Ci lavavamo il viso all’aperto al rubinetto del cortile in qualsiasi stagione dell’anno, anche con -10° C.
Però eravamo contenti lo stesso. Ogni 15 giorni, puntuale, veniva consegnata la busta paga.

Il nostro padrone sapeva ricompensare il lavoro dei più meritevoli con frequenti aumenti che avvenivano anche per nostra richiesta.
Ho vissuto in baracca quattro anni. Nel frattempo conobbi una ragazza pugliese, di Ugento (Lecce), che abitava a Wadenswil con la sorella. Con tanta fatica ho trovato un appartamentino in affitto e così ci siamo sposati il 7 ottobre del 1971 a Ugento e dopo qualche settimana siamo tornati in Svizzera. Il grosso problema era che non potevo portare con me la moglie avendo un permesso stagionale; come tanti altri nella mia situazione l’ho fatta venire clandestinamente. Per questo motivo, quando uscivo la mattina, chiudevo la porta a chiave e tenevo le imposte chiuse e lei se ne stava chiusa in casa. Fortunatamente, dopo pochi mesi, sono maturati gli anni necessari per ottenere il permesso annuale e si poté vivere più tranquillamente, perché si poteva tenere con sé la moglie e cercare anche per lei il lavoro.

Dopo un anno di matrimonio nacque il primo figlio e dopo tre il secondo. Nel frattempo mia moglie trovò lavoro. Cominciava così il problema della custodia dei bambini. La sua fabbrica per fortuna aveva un asilo nido con scuola materna; ogni mattina a passava un pulmino della ditta a prelevare da casa mamme operaie e bambini ed alla sera li riportava a casa.

La vita di emigrazione in Svizzera ci soddisfaceva entrambi, si lavorava, ma si guadagnava bene. Io avevo imparato bene il mestiere di muratore e non avevo più alcuna paura, anzi mi venivano assegnate alcune responsabilità da capocantiere. Si viveva veramente bene a Wadenswil, una cittadina in riva al lago di Zurigo. Ogni domenica facevamo delle passeggiate in riva al lago con i bambini, che si divertivano a portare il pane alle anatre ed ai cigni. Il lago e la stazione ferroviaria erano un luogo di incontro degli Italiani, dove si conversava e poi si andava al ristorante a bere una birra in compagnia.

I figli crescevano e arrivò il problema della scuola. Noi, volendo preservare l’Italianità della famiglia e con l’intendimento di dover un giorno tornare definitivamente in patria, nel 1978, a malincuore, lasciammo il primogenito in Italia con i nonni paterni a Seren del Grappa, dove iniziò le elementari. Nel 1980, con l’età scolastica del secondo figlio, decidemmo di tornare per sempre (pensavamo) in Italia. Ma, dopo giusto un anno, si tornò tutti in Svizzera, perché a Seren le cose non andarono come si sperava, e fummo riassunti dalle stesse ditte, senza alcun problema. Nel 1984 nacque il terzo figlio; in questi anni si viveva ancora meglio: erano lontani i tempi del freddo monolocale, ora si stava in un bell’appartamento confortevole e con il riscaldamento.

Nel 1986 la decisione di tornare in Italia fu definitiva, perché il figlio grande voleva continuare a studiare alle superiori. Furono ancora decisioni sofferte: restare ancora in Svizzera o andare in Italia? Questa volta abbiamo detto Italia per sempre. Questa volta ci andò bene, la nostra Italia fu più generosa con noi perchè ci dette a un lavoro e quindi la possibilità di completare la casa, far studiare i figli fino all’Università e raggiungere la meritata pensione.

Gli anni di emigrazione in Svizzera non potremo mai dimenticarli. Sono stati anni di sacrifici, ma molto importanti per tutta la nostra famiglia anche per gli anni a venire. Ho avuto il grande dono di aver trovato lì mia moglie (donna del profondo Sud, che simpaticamente chiamo la mia terrona), la madre dei miei tre figli, nonna dei miei cinque nipoti; ormai siamo insieme da 42 anni.

Ancora oggi, ogni tanto torno a Wadenswil, ed è come un tuffo nel passato; lì mi soffermo in riva al lago, dove un tempo la domenica, tenevo per mano i miei bambini.

Marino Scopel

Rino Dal Farra. La mia esperienza in Svizzera

Rino Dal Farra

“Nel 1958 in Alpago c’era miseria nera. Ed io, come quasi tutti gli Alpagoti, sono andato in Svizzera, con in tasca un contratto di lavoro che un mio amico mi aveva fatto avere. Non sapevo cosa avrei dovuto fare, perché il contratto era scritto in tedesco, di cui non sapevo una parola.

Insomma per un anno ho lavato piatti e pelato patate – come previsto da contratto – in un grande albergo, a Einsiedeln. Volevo scappar via subito, ed invece son rimasto in terra elvetica per 35 anni. Ho fatto corsi di tutti i generi: tedesco, spagnolo, scuola di commercio. Mi è riuscito tutto – con totale applicazione, s’intende – essendo autodidatta ed essendomi portato da Belluno un po’ d’istruzione e l’apertura mentale necessaria.

Ho messo su famiglia, allevando quattro figli, oggi Italiani e Svizzeri. Mi son costruito una posizione dignitosa. Ho lavorato sodo – come del resto quasi tutti i Bellunesi! – a Lachen, sul lago di Zurigo, a Niederurnen (dove, la sera, insegnavo tedesco agli italiani che lavoravano lì). Per nostalgia della mia lingua materna sono andato anche a Lugano. Mi sono accorto là che i Ticinesi di fronte ad uno Svizzero di lingua tedesca sono Italiani e di fronte ad un Italiano (io) sono Svizzeri. Dopo un anno sono ritornato nella Svizzera tedesca! Una volta la settimana, la sera, ho dato a Rapperswil lezioni di Italiano a Svizzeri, per dieci anni. Gli ultimi 18 anni ho lavorato a Volketswil/ZH in una grande ditta, della quale ero il factotum amministrativo e di cui mi ero guadagnato la totale fiducia.

Ho rispettato tutti come tutti hanno rispettato me. Ho rispettato le loro leggi, i loro usi e costumi, le loro regole. A casa degli altri, comandano, appunto, gli “altri”. Ho imparato a prendere la persona così com’è, con i suoi pregi e i suoi difetti, con le sue idee.
Conoscendo tutti i meccanismi amministrativi e politici svizzeri, non posso fare a meno di citare tre soluzione da brevetto.
Pensione di vecchiaia: c’è un minimo e c’è un massimo. Il motto della pensione di vecchiaia svizzera è: il giovane per i vecchio, il ricco per il povero;

Gli evasori fiscali hanno grosse difficoltà a nascondersi, perché la dichiarazione dei redditi va in Comune, che può facilmente controllare;
Lo stato di “impiegato statale” non esiste; già a livello comunale si assume e si licenzia – se necessario – (senza l’intervento dei Sindacati!).

Durante gli ultimi dieci anni di Svizzera ho “scoperto” la Famiglia Bellunese di Zurigo, collaborando attivamente. Lì ho vissuto l’attaccamento alla nostra “bellunesità” e alla nostra patria. Per me – e penso per tanti Bellunesi – la Svizzera è stata l’America! Mi han trattato bene. mi han pagato bene, però…
Nel 1993 la nostalgia delle mie montagne e della mia gente raggiunse il massimo ed ho avuto il coraggio di rientrare, assieme a mia moglie, lasciando lì quattro figli ormai “fuori di casa”.

Rino Dal Farra

Antonio Renon, Ottawa

Antonio Renon, da Ottawa (Canada), originario di Tiser, dopo gli auguri per l’anno nuovo e il ringraziamento per Bellunesi nel Mondo e per il calendario (“Tutto ciò mi riporta ai bei tempi che ricordo ancora chiaramente”) ha accolto il nostro invito, inviandoci la sua “storia di emigrante”, che qui riassumiamo.

“A sei anni cominciai ad andare a guardare le mucche al pascolo, assieme ad un anziano. Quindi, a dieci divenni conža (seggiolaio) con mio padre, prima in Toscana, poi nel Bresciano, dove nel 1943, lavorai nella gelateria di mio cognato. Dopo un periodo trascorso a casa, nel ‘44 fui di nuovo in gelateria e quindi ancora conža e nuovamente in gelateria, finché questa fu costretta a chiudere perché il proprietario del fabbricato aveva bisogno dei locali. Esonerato dal servizio militare (avevo il padre inabile e un fratello minorenne), nel 1947 partii per il Belgio (“braccia in cambio di carbone”), ma dopo un anno di lavoro da minatore mi trovai che non avevo più forze, e, dopo varie visite mediche, ritornai in Italia, da mia madre. Nel 1951 partii per il Canada, con destinazione St. Thomas (Ontario), prima come bracciante agricolo, poi come installatore di fognature e condutture d’acqua,e, più tardi, nel 1952, nel Nord Ontario, come boscaiolo in una ditta che aveva una cartiera che forniva la carta ai giornali di New York. Nel dicembre del 1958 partii per l’Italia per sposarmi, a Monza, con Daria, anche lei di Tiser, emigrata con la sua famiglia ancora nel 1942. Non mi fermai a lungo; d’accordo con mia moglie, decisi di ritornare in Canada per il clima, dato che non sopporto il caldo. Presi subito lavoro ad Ottawa e cominciavo ad imparare il mestiere di muratore, quando un’ulcera duodenale mi costrinse, su suggerimento del medico, ad un lavoro meno faticoso. Dato che avevo già la cittadinanza canadese riuscii ad ottenere un impiego come addetto alla pulizia e manutenzione di fabbricati, lavoro che praticai per ben 29 anni, fino al pensionamento, a 65 anni. Sono stato fortunato: non ho mai avuto infortuni sul lavoro, anche in mestieri pericolosi come minatore e boscaiolo (In Belgio mi sono salvato per tre minuti, grazie ad un sorvegliante). Mi scuso di questa lunga chiacchierata (ho fatto solo la quarta elementare e la quinta serale) e vi lascio con il rinnovo del mio abbonamento”.

Antonio Renon